domenica 18 novembre 2012

Orfeo ed Euridice


E già Orfeo tornava, vinto ogni pericolo,
ed Euridice veniva verso la luce del cielo
seguendo alle spalle (così impose Proserpina),
quando una follia improvvise lo travolse,
da perdonare, certo, se i Mani sapessero perdonare.
Orfeo già presso la luce, vinto d’amore,
la sua Euridice si voltò a guardare.
Così fu rotta la legge del duro tiranno,
e tre volte un fragore s’udì per le paludi d’Averno.
"Quale follia" ella disse, "rovinò me infelice,
e te, Orfeo? Il fato avverso mi richiama indietro,
e il sonno della morte mi chiude gli occhi confusi.
E ora addio: sono trascinata dentro alla profonda notte,
e non più tua, tendo a te le mani inerti".
Disse; e d’improvviso svanì come fumo nell’aria
leggera, e non vide più lui che molte cose
voleva dirle e che invano abbracciava le ombre;
ma chi traghetta le acque dell’Orco
non gli permise più di passare di là dalla palude.
Che poteva egli fare? Dove andare ora che la sposa
gli veniva tolta ancora con violenza? Con quale
pianto impietosire i Mani, con quale canto i numi?
Ormai fredda, navigava nella barca dello Stige.
Dicono che Orfeo pianse, per sette mesi, senza quiete,
sotto un‘alta rupe in riva al deserto Strìmone
e che narrò la sue pene dentro a gelidi antri,
facendo mansuete le tigri,
e traendosi dietro le querce col canto.
Così dolente usignolo tra le foglie di un pioppo
lamenta i figli perduti, che crudele aratore
tolse dal nido, ancora senza piume; e piange
più la notte, e ripete da un ramo il canto desolato,
e le valli riempie di melanconici richiami.
Nessun amore, nessuna lusinga di nozze
persuase l’animo di Orfeo.
E andò per i ghiacci boreali,
per il Tanai nevoso e le terre dei Rifei
sempre coperte di gelo, lamentando Euridice
e l’inutile dono di Dite. E le donne dei Ciconi,
sdegnate per l’amore respinto,
nelle orge notturne, durante i riti di Bacco,
dispersero per i campi le sue membra dilaniate.
Anche quando il capo, staccato dal candido collo,
l’Ebro Eagrio portava travolgendo nei gorghi,
la voce, e la lingua ormai gelida: "Euridice",
chiamava mentre l’anima fuggiva: "O misera Euridice",
"Euridice", ripetevano le rive lungo il fiume.

Publio Virgilio Marone
(poeta romano, 70 a.C. - 19 a.C.)

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